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“Date parole al vostro dolore, se non volete che il vostro cuore si spezzi!” William Shakespeare

-Tratto da una lezione di PNF- Diventa Consulente Filosofico-

Ci sono tanti modi per meditare. Uno di questi è prendere un aforisma e rovesciarlo come un guanto. Occorre leggerlo con calma e interrogarlo interiormente:

“Cosa mai nasconderanno le tue righe? Quali saggezze si celano in così poche parole? Come posso utilizzarti al meglio, senza permettere che tu mi scorra davanti agli occhi con la stessa frenesia di una bolletta, di un avviso di una riunione condominiale o di un titolo monotono di giornale? Non ti posso leggere come se tu fossi uno spot appiccicato al muro, permettimi di farti penetrare nei miei atomi, in tutte le mie cellule!”

Di un aforisma si leggono anche le virgole, e si sa, uno scrittore le mette dove vuole, senza regole, poiché conosce bene lui il perché le abbia volute incidere dopo una parola piuttosto che un’altra. Perciò, caro Shakespeare, dato per scontato che non desidero affatto che il mio cuore si spezzi, cosa volevi dire con: “Date parole al vostro dolore!”? Non credo certo che io debba accalappiare qualche cavia che presti ascolto tutti i giorni ai miei problemi. Povere le orecchie di coloro che non possono far altro che sentir lagnanze! Non sarebbero più parole caro William, ma frecce acuminate, lame taglienti insopportabili per qualunque condotto uditivo che si rispetti, che diamine! E allora? In che modo potrei dar parole senza ferire i timpani di chicchessia?

E dopo tante domande, finalmente, i miei occhi si adagiano piano piano, lentamente, cercando di vedere oltre le righe. Così scopro che posso raccontare i miei dolori disegnando. Oppure cantando. Oppure ancora scrivendo, sì, proprio come faccio ora. Non racconto a nessuno quel che ho dentro ma il mio dolore si trasforma in qualcosa che, magari, appartiene anche a voi e che voi riconoscete, semplicemente leggendomi dietro alle righe, sotto o sopra di esse. Non è necessario che io parli di qualche mio problema. Può bastare che io parli della vita in generale e che, chi mi ascolta, si accorga che sto parlando di me, di voi, di noi tutti, perché poi, diciamocelo signori miei, chi non ha dolori?

E cosa dobbiamo fare? Passare il tempo a riempire le orecchie di qualche malcapitato e rovesciargli addosso tutto quel che di amaro abbiamo dentro? Credo che Shakespeare mi stia dicendo che esiste un modo molto più redditizio di dar parole. Sì, certo, come non averci pensato prima? Posso tradurle in qualcosa di utile per tutti. Sicuramente verrò ascoltato più volentieri se parlerò di me come se io fossi voi, di modo che voi stessi possiate rivedervi in me, identificandovi in quel che dico e magari trarne spunto consolatorio e perché no, anche risolutivo, in certi casi.
Potrei crearmi un diario dove annotare i miei pensieri giornalieri, qualora voglia rimanere nell’intimità. Oppure potrei dedicarvi una canzone che rappresenti un mio stato d’animo il quale, però, rappresenti anche il vostro, così da sentirci accomunati dagli stessi pensieri.
Potrei scrivere bigliettini d’Amore e donarli qua e là, a chi incontro nel passar della mia giornata. Potrei anche scrivere ad amici lontani, per sapere come stanno. O telefonare a quel tale che non vedo più da una vita, per dar parole senza parlare, semplicemente ascoltando le novità della sua vita, se avrà voglia di raccontarmele.

Caro Shakespeare, chi l’avrebbe detto? Con una sola frase mi stai aprendo un mondo. Un mondo che mi sarei perso se non mi fossi soffermato a meditarti rigirandoti nei miei occhi e nei miei pensieri. Ma ora dimmi, quando hai scritto quella roba lì, come stavi? Com’era il tuo stato d’animo? Mi sa tanto che l’hai fatta passare dalla mente all’inchiostro, e dall’inchiostro alla carta, perché ti sei accorto del beneficio che ti sei procurato scrivendo poesie e commedie, e hai voluto alleviare i nostri dolori prescrivendoci la tua medicina.
E io, ora, grazie a te, pur non aspirando ad alcun premio Nobel per la letteratura, posso comunque provare a dare parole in mille diversi modi, artistici o bislacchi, per vederne l’effetto su di me.
E devo dirti, perbacco, che mi sento già meglio dopo aver scritto quel che ho scritto e sai perché? Ho pur sempre la speranza che possa essere stato utile ad almeno un lettore, ed è un bel sollievo sentirsi utili a qualcuno. Fosse anche uno solo. Ma ci pensi? Senza nemmeno alzare le natiche dalla sedia! E magari quel che ho scritto verrà condiviso e staranno un pochino meglio altri di cui mai saprò nulla e nemmeno mai conoscerò. Ecco che un mio dolore qualunque si trasforma, allora, in un piccolo miracolo.

Certamente conviene ed è più utile che affogar le orecchie di qualcuno, caro Shakespeare! Inoltre, a tutti coloro che verranno a riempire le mie, per compassione dirò loro: “Ehi amici miei, io vi ascolto volentieri oggi, anche domani e vi ascolterò per un anno intero, ma siete sicuri che potrete andare avanti in questo modo tutto la vita? Credo alle vostre sfortune e ne sono molto dispiaciuto, non vi dirò, stupidamente, come molti fanno, che ci sono disgrazie peggiori delle vostre, ma sapete una cosa? Lamentarsi di continuo è l’unico sistema che non cambierà di una sola virgola tutti i vostri problemi. Provate a cambiare qualcosa. Continuate pure a dare parole ai vostri dolori ma fatelo in modo diverso. Fatelo in maniera tale che qualcuno possa trarne una propria utilità, un proprio beneficio. Ne avrete giovamento voi e chi vi ascolterà!”

natyan